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65 anni fa la tragedia del “camion della morte”. Il Polesine scompare sott’acqua

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Pubblichiamo questa breve raccolta di testimonianze, a firma di Nicola Cappello, che un lettore ci ha inviato questa mattina. Non conosciamo l’autore e non sappiamo se, dove e quando questo pezzo sia stato pubblicato. Però ci piace e riteniamo utile riproporlo proprio oggi a chi ci legge. Ovviamente rimaniamo a disposizione dell’autore per ogni forma di approfondimento del caso.

La mattina di quel mercoledì 14 novembre 1951, le scuole di Occhiobello, in provincia di Rovigo, rimasero chiuse. La piena del Po si stava avvicinando, la popolazione era nervosa e nessuno si sentiva al sicuro. Quel giorno tutti lo passarono a sistemare bestie e averi, portandoli ai piani superiori degli edifici. Aveva piovuto tanto in quel periodo e in tutto il Nord Italia, aumentando il livello dell’acqua degli affluenti e dell’asta principale del fiume, mentre un vento di scirocco impediva al mare di ricevere, creando una miscela che da lì a poco avrebbe scatenato la forza del fiume sulla popolazione. Già nel primo pomeriggio intere famiglie si industriavano, chi per proteggere le cose, chi per cercare riparo, mentre l’acqua cominciava ad uscire e a inondare le campagne. C’era tanta nebbia e il silenzio veniva rotto solo dal rumore del fiume che scavalcava la sommità arginale. Era il preludio dell’immane catastrofe che si sarebbe abbattuta alla sera e che avrebbe segnato per sempre questo territorio.

In località Malcantone, nel Comune di Occhiobello, ci fu la terza rotta, la più devastante, quella che permise al Grande Fiume di violare le campagne e le genti che le abitavano. Furono un centinaio le vittime, 84 solo nel «camion della morte», che fu inghiottito dalle acque all’altezza di Frassinelle con il suo carico di fuggiaschi. Una strage, quella di Frassinelle, che poteva essere evitata, come racconta Mario Ruggin, 24 anni all’epoca dei fatti: «Ero all’incrocio dove passò quel camion, con il lumino a petrolio. Nel buio mi feci vedere dall’autista, gli gridai di prendere la strada a sinistra. I fossi stanno crescendo in modo rapidissimo, gli spiegai, non devi proseguire dritto perché lì e già arrivata l’acqua». Ma quel vecchio Alfa Romeo dal muso sporgente, guidato dal signor Attilio Baccaglini, che si salvò, finì direttamente nelle acque del Po.

Furono oltre 200 mila i senzatetto e 700 gli edifici distrutti. Altre testimonianze arrivano dai bambini di allora, come Antonietta e Antonio Poli, due fratelli che all’epoca avevano 10 e 7 anni. «Vivevamo in località Bosco (nel Comune di Occhiobello ndr), dove vi fu la seconda rotta – raccontano -. Trovammo rifugio in una casa vicina di nuova costruzione, la sera mangiammo qualcosa, prima di andare a letto». Poi il boato e mezza casa fu spazzata via. Un’intera famiglia, quella che vi si era rifugiata con loro, una coppia con due figli piccoli, morì travolta dall’onda, mentre i fratelli caddero in acqua finendo sopra l’unico melo che ancora resisteva all’impeto del fiume. Passarono 36 ore aggrappati ad un tronco ad attendere i soccorsi, mezzi nudi in inverno e scaldandosi stringendo un gattino che aveva trovato rifugio nello stesso albero.

«Tragiche scene di pericoli, grida di soccorso, di aiuto e poi anche di disperazione, perché si sfuggiva alla morte e si fuggiva alla rinfusa, strappati talvolta dai cari e da ogni cosa – furono le parole dell’allora sindaco di Adria, Sante Tugnolo, 22 anni all’epoca, nel verbale del Consiglio comunale del 9 dicembre 1951, testimonianza diretta della disperazione di quei giorni -. Fanno ritornare in chiara visione nella mente gli avvenimenti succedutisi fulmineamente e giustificano grandemente taluni errori, se essi si possono qualificare, commessi in quei tristi momenti».

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