
Ora il caviale del Po, o di Nuta Ascoli, è anche on line. Sono infatti disponibili in formato digitale le informazioni del 1935 sul caviale – cotto al forno e diverso da tutti gli altri caviali del mondo – che Benvenuta Ascoli, detta Nuta, preparava a Ferrara a quintali con le uova degli storioni allora abbondanti nel fiume. Soltanto lei conosceva la ricetta.
Un articolo praticamente mitico del 1935 su Nuta Ascoli è entrato a far parte della collezione digitale della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma ed è consultabile on line. Costituisce l’unica fonte scritta del Novecento che contiene dettagli sul caviale del Po. Lo pubblicò il quindicinale “Rivista di Ferrara”. Ecco l’anteprima del numero che contiene l’articolo e la prima, la seconda e la terza parte dell’articolo stesso.
L’unica altra fonte scritta a proposito del caviale cotto al forno è un ricettario del Rinascimento legato alla corte ferrarese. Oltre al testo, la “Rivista di Ferrara” offre anche un collage di piccole foto di Nuta Ascoli, dal quale è ricavata l’immagine in alto di questa pagina. In fondo a questa stessa pagina, invece, il collage del 1935 è riprodotto tale e quale, con le foto inframmezzate da spezzoni di testo.
Dopo la Nuta, la ricetta del caviale cotto è andata persa e solo di recente la si è rocambolescamente ritrovata. Viene tuttora eseguita con uova di storioni da acquacoltura. Ma questo è un altro paio di maniche.
L’articolo del 1935 si intitola “Storione più Nuta uguale a caviale”. Porta la firma di Aroldo Canella. Comincia con un’ampia digressione sul caviale prodotto all’estero. Comprende una lunga parte dedicata agli storioni del Po che allora erano grossi anche “come un vitello”. Le specie di storione sono tante, quella che interessa è lo storione comune, precisa Canella. Descrive con toni quasi lirici la pesca degli storioni che risalivano il fiume in primavera, al tempo della riproduzione. Spiega che nei decenni precedenti c’era l’abitudine, già scomparsa in quel 1935, di andare in gita nei paesi affacciati sul Po per assistere alla cattura.
Ma al centro di tutto c’è lei, la Nuta, alla quale i pescatori portavano le uova degli storioni: le cuoceva in forno e preparava il caviale. A Ferrara era la titolare “di quel piccolo negozietto in via Mazzini” scuro e colmo di oggetti “come se ne trovano nei nostri ricordi primi e lontani”. Tegami, “focacce strane, salami mai visti”: l’unica bottega che “conserva ancora tutto il colore del Ghetto ferrarese”. L’articolo non lo dice esplicitamente, ma si trattava di una gastronomia di specialità ebraiche e Nuta Ascoli era di origini ebraiche: una donna “dal viso rotondo e simpatico” con “due occhietti rotondi di colore indefinibile”.
Aroldo Canella spiega che la Nuta aveva due personalità. La prima era quella nota a tutti ed osservabile nel negozio. “L’altra, è la signora Ascoli Nuta, abitante in una casa di via Vittoria dove è situato il vero laboratorio del caviale”. Si trovava al pianterreno, separato dalla cucina dalla quale uscivano le altre specialità vendute in negozio.
Ed eccola, la Nuta che in laboratorio si mette all’opera per ricavare il caviale dalle uova di storione appena giunte: “una specie di lunga vescica granulosa che così a occhio peserà una decina di chili”. Raschia leggermente questa specie di vescica per separare le uova e le raccoglie in un recipiente di legno, pieno d’olio e a forma di cassetta. La porta via con sé brevemente: e qui il lettore deve domandarsi, anche se l’articolo non lo suggerisce esplicitamente, cosa fosse andata a fare, cosa avesse aggiunto all’olio e alle uova. Ricompare ed affida la cassetta di legno a un ragazzo che la spinge nel forno caldissimo.
“Addio cassetta, penso io e chiunque vedesse una tale operazione”, scrive Aroldo Canella, aggiungendo le immediate rassicurazioni in proposito della Nuta: la cassetta è di un legno “tanto speciale”; suo padre aveva cominciato ad usarla nel 1860 e non si era mai bruciata. Da quella cassetta usciva un caviale come non lo si preparava né in Russia né in nessun’altra parte del mondo, conservabile però solo per poco tempo. “Quindici giorni, un mese, anche più ma non posso garantirne la durata… Ho fatto un’infinità di prove per conservarlo più a lungo, ma non riuscirono”.
Ricompare il ragazzo, tira fuori la cassetta di legno dal forno, rimescola bene il contenuto, la infila in forno di nuovo. Il caviale sarà pronto fra due ore, annuncia la Nuta, ed aggiunge che “di tanto in tanto” sarà necessario ripetere l’estrazione dal forno ed il rimescolamento. Ma “Bisogna stare molto attenti durante la cottura delle uova, altrimenti al posto del caviale vien fuori una crosta”. A molti piace e anche quella si vende, aggiunge: ma non è più caviale.
La Nuta spiega di preparare ogni anno “alcuni quintali” di caviale, “che vien acquistato da una clientela di affezionati”. “Quest’anno ne ho mandato un mezzo quintale in scatolette alla Fiera di Milano, e credo sia stato venduto…”
Cosa c’è, nel caviale cotto, oltre all’olio e alle uova di storione? La Nuta, fino a questo punto cordialmente loquace, diventa cordialmente reticente: “Sale, pepe ed altre droghe”. Quali? “Eh! Il segreto è appunto in queste!”. Soltanto la Nuta, aggiunge Aroldo Canella, conosceva questo segreto. Lo custodiva nella sua memoria e non era minimamente intenzionata a rivelarla a chicchessia. Sarebbe un disastro, se andasse perduto: “Il caviale della Nuta è diventato un’istituzione indispensabile, una specie di monumento provinciale di cui non se ne potrebbe fare a meno”.
Fin qui il succo dell’articolo pubblicato nel 1935 ed ora disponibile on line. Bisogna aggiungere che il segreto della Nuta è effettivamente sparito con lei, per poi riemergere fortunosamente in anni recenti.
Con le leggi razziali promulgate a partire dal 1938 e poi con la guerra si sono perse le tracce di Benvenuta Ascoli detta Nuta. Si sa che la vedova del garzone di bottega, Matilde Pulga, ha portato avanti il negozio fino al 1972, producendo però il caviale cotto al forno solo per poco tempo e in quantità via via più ridotte. Gli storioni infatti sono spariti dal Po con gli Anni 60, a causa dell’inquinamento e degli sbarramenti artificiali che impediscono la risalita del fiume.
Il caviale del Po sembrava perduto per sempre. Un notaio e gastronomo ferrarese, Roberto Brighenti, ha smosso mezzo mondo per trovare qualcuno che avesse conservato la ricetta. Quando gli hanno detto che magari potevano saperne qualcosa alla comunità ebraica di New York, ha smosso anche quella.
La ricetta del caviale cotto ferrarese è saltata fuori davvero: forse proprio quella della Nuta. La cuoca del notaio, Giuseppina Bottoni, l’ha ricevuta in eredità. Attraverso questa tortuosa e rocambolesca strada e gli storioni da acquacoltura, il caviale del Po è tornato in produzione.
Si è così riannodato il filo della memoria che sembrava essersi spezzato con la Nuta e con la sua bottega: le immagini dell’una e dell’altra compaiono qui sotto, nel collage inframmezzato da righe di testo pubblicato nel 1935 sulla “Rivista di Ferrara”.