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Il drago Tarantasio, il mostro padano che si annida nelle chiese

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drago tarantasio chiesa san marco milano

Oltre che nelle leggende, continua a vivere nelle chiese il drago Tarantasio, il mostro padano mangiatore di uomini, e preferibilmente di bambini, che col suo fetido alito appestava l’aria e diffondeva epidemie. Viveva nel lago Gerundo, l’estensione paludosa che, fino alle bonifiche medievali, si trovava fra le prime alture lombarde ed il Po e che si avvicinava al fiume all’altezza di Cremona. Tarantasio aveva corpo di serpente e sputava fuoco dalla bocca. Alcuni gli attribuiscono le ali e sei zampe: come la sorella francese che gli somiglia anche nel nome, Tarasque.

Le leggende spesso collegano l’uccisione del Tarantasio alla bonifica del lago Gerundo. L’eroe che eliminò il drago, a seconda delle versioni, è San Cristoforo, San Colombano o Uberto Visconti. Quest’ultimo fu il capostipite dei signori di Milano che avevano sullo stemma un serpente nell’atto di inghiottire un bambino.

Ai margini dell’ex lago Gerundo, alcune chiese conservano raffigurazioni del drago Tarantasio. Sono riportate più avanti, ma una è già nella foto di copertina. Si tratta del drago serpentiforme e mangiatore di esseri umani – ne sta appunto inghiottendo uno –  che compare alla sommità di una finestra situata sulla facciata della chiesa di San Marco a Milano. Un biscione molto simile è anche sullo stemma di Milano. Sulla facciata del Duomo c’è invece una piccola statua con la versione senza bambino in bocca.

La galleria qui sotto contiene altre raffigurazioni di Tarantasio provenienti da chiese lombarde ed emiliane. Clic su ogni foto per vederla ingrandita.Le prime tre immagini mostrano una veduta d’insieme e due particolari di un dipinto conservato nell’abbazia di San Pietro al Monte a Civate, in provincia di Lecco. A seguire, un mosaico (veduta d’insieme e un particolare) nella basilica dell’abbazia  di San Colombano a Bobbio, in provincia di Piacenza: le immagini sono tratte dalla visita virtuale. Infine un affresco nella chiesa di San Giorgio in Lemine situata ad Almenno San Salvatore, in provincia di Bergamo. Sia l’area di provenienza sia vari particolari suggeriscono che le immagini si riferiscano proprio al drago padano, e non a un drago qualsiasi.

L’ultima immagine – il dipinto di San Giorgio in Lemine – è quella in cui il Tarantasio è meno immediatamente riconoscibile come tale. Fra l’altro ad ucciderlo è San Giorgio, e non San Cristoforo o San Colombano. Però un elemento gioca nettamente a favore dell’identificazione col drago padano. La medesima chiesa custodisce infatti, appeso al soffitto, un gigantesco osso – probabilmente di balena – che secondo la tradizione sarebbe una costola del drago Tarantasio.

La penultima e la terzultima immagine della galleria, quelle dell’abbazia di San Colombano a Bobbio, vengono dal mosaico che ricopre il pavimento della cripta. Oltre alle rappresentazioni dei 12 mesi e a scene bibliche, il mosaico mostra in un angolo il “draco”, come recita la scritta. Ha corpo da serpente e sputa fuoco dalla bocca: due caratteristiche tipiche del Tarantasio che, secondo una versione della leggenda, fu ucciso da San Colombano durante il viaggio che lo portò a fondare l’abbazia di Bobbio. Nel mosaico però non è lui a lottare contro il “draco”, ma una mostruosa creatura indicata come “lemnas”, che ha la testa situata sul torace.

Nelle prime tre foto della galleria, provenienti dall’abbazia di San Pietro al Monte, il Tarantasio compare come il drago dell’Apocalisse, rosso e con sette teste. Sei delle sette teste sono però piccine piccine e somigliano molto alle altrettante zampe delle quali era dotato il mostro padano. Inoltre dalla bocca gli esce una lingua di fuoco ed il bestione sembra insidiare un bambino: il cibo preferito di Tarantasio.

In tempi più recenti, il Tarantasio è uscito dalle chiese ed è entrato fra i 100 mostri più famosi del mondo. Inoltre si è insediato presso i distributori di benzina. Infatti era in realtà un Tarantasio il simbolo della Supercortemaggiore, la benzina prodotta in Italia negli Anni 50 e 60 in seguito alla scoperta di giacimenti di petrolio nel Piacentino. Il simbolo in questione raffigurava un essere a sei zampe – solo apparentemente un cane – che sputava fuoco. L’immagine continua ad essere il marchio dell’Eni. In versione verde e senza più l’alito infuocato, il Tarantasio perciò ora compare perfino sulle bollette del gas e della luce.