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Storia della fabbricazione di barche da Po (parte 1)

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” … con lentezza, tavola dopo tavola, costola dopo costola, chiodo su chiodo, da poppa a prua, dal fondo alla scalmiera, finché un bel giorno …”

La storia della navigazione fluviale è stata, come molte altre storie, un tempo quasi immobile; per almeno duemila anni, navi, navicelle e barche dalle sagome poco diverse sono state condotte sempre sulle stesse rotte, con le stesse tecniche manuali, con remi, remi di punta, funi, cavalli e alberi di alaggio. Una storia lenta come lo scorrere delle acque che solcarono quelle navi. Una storia di uomini, tradizioni, lavoro e rispetto per i fiumi.

In genere le imbarcazioni destinate alla navigazione fluviale erano di fabbricazione locale. Questo spingeva i costruttori a ricorrere alle tradizioni di costruzione, e a servirsi di tipi di legno presenti nella propria zona. Il legno duro per la sua resistenza all’umidità era usato per le strutture principali, mentre il legno dolce per la sua elasticità, era particolarmente adatto per le parti soggette ad urti. Il pino era l’essenza più utilizzata, di densità media, facile da lavorare, resistente all’acqua, e adatto ai segmenti più lunghi della nave. Per le altre parti erano usati prevalentemente tra le resinose il larice, il cipresso e l’abete. Molto usati erano anche l’olmo, la quercia, il noce, il faggio, il frassino e l’acero. Indispensabile era la tecnica del calafataggio, vale a dire, il rivestimento di stoppa e pece, in modo da rendere impermeabile lo scafo stesso.

Fonte illustrazione: https://www.barchepo.it/#home

Vi erano in tutte le antiche marinerie, rapporti tacitamente rispettati nella costruzione degli scafi; alcune formule sono giunte a noi, come l’uno per due, per tre, ecc. vale a dire: un’unità d’altezza (puntale) per due, dava la misura della larghezza della nave, che a sua volta, moltiplicata per tre dava la lunghezza dello scafo. Le costruzione padane avevano un maggiore allungamento, rimanendo della misura di 17 cm di larghezza per ogni metro di lunghezza. La costruzione della barca iniziava dal fondo, generalmente piatto per consentire una navigazione anche nei tratti meno profondi; e possiamo dividerle in base alla tecnica d’esecuzione in:

1) barche cucite: le tavole di fasciame sono tenute assieme con pioli, che le attraversano nello spessore, e sono poi collegate tra loro da cuciture di fibre vegetali o animali, passanti in fori praticati sui bordi delle stesse.

2) a scheletro portante: consiste nel mettere in opera prima tutta l’ossatura sulla chiglia dell’imbarcazione, e nel collegare successivamente i corsi di fasciame per formare l’involucro della nave. I primi esempi sono databili dal X secolo.

3) a scafo portante o a guscio: è un procedimento contrario perché dopo aver sistemato la chiglia, sono unite direttamente le tavole di fasciame. Gli elementi dello scheletro sono posti successivamente al raccordo dei corsi di fasciame, con l’unica funzione d’irrigidire, più che di irrobustire lo scafo.

4) costruzione mista: i giunti tra le tavole originariamente vicinissimi (10 cm) e rettangolari, tesero a rarefarsi e a divenire trapezoidali, con la conseguenza che i collegamenti dell’ossatura dovettero essere più solidi, mentre il fasciame iniziò ad assottigliarsi. Questa tecnica, a partire, dal IV secolo ebbe un uso diffuso.

Genova, Venezia ed altre città marinare ebbero in gran conto i maestri d’ascia, che con il loro lavoro seppero preparare i legni che portarono in alto il prestigio di quelle città. Anche sui fiumi molti erano i cantieri depositari di antiche tradizionali tecniche costruttive, che da secoli si sono dedicati alla costruzione dei vari tipi d’imbarcazione fluviali. La funzione dei cantieri era ovviamente molto importante, non solo per la costruzione dell’imbarcazione, ma soprattutto per la sua manutenzione e riparazione che comportava sostituzioni spesso anche consistenti di parti dello scafo.

Le navi e imbarcazioni padane erano molto simili alle veneziane; una caratteristica distintiva era la finezza degli scafi, il loro essere lunghi e stretti, questo perché la Laguna ed i fiumi padani hanno all’incirca la stessa struttura fondamentale e chiedono all’incirca gli stessi modelli di scafi ed in parte le stesse essenziali manovre. Infatti la Laguna sembra il mare, ma è anch’essa un reticolo di fiumi e fiumicelli che hanno le loro correnti e chi vi naviga sa bene che bisogna stare negli alvei se non ci si vuole arenare.

Gli scafi oltre alla finezza si distinguevano per le loro estremità non solcante, non a tagliamare; lo scafo non tocca mai l’acqua con tutta la sua lunghezza, anche se carico. Negli scafi maggiori, la prora e la poppa erano in qualche modo paragonabili all’estremità di una banana, con il fondo piatto dello scafo che saliva fino al bordo e disegnava una curva non priva d’eleganza.

Il cantiere del maestro di fiume non aveva un laboratorio chiuso; di solito lavorava all’aperto sotto un portico, e quando la barca era di notevoli dimensioni il cantiere era la stessa riva del fiume. Il maestro logicamente era anche il calafato; per il calafataggio (tutte le barche in legno dovevano essere impermeabilizzate) usava una resina vegetale ricavata in particolare dalle ceppaie di legni resinosi come il larice e il pino silvestre.

I pezzi di legno venivano messi in un forno che veniva riscaldato dall’esterno con il fuoco. Con l’aumento della temperatura avveniva la pirolisi (distillazione) della resina e della legnina, che si scioglieva dalle fibre del legno e veniva successivamente  filtrata e cotta per almeno 30 ore fino a diventare pece. Con la cottura di una ceppaia di questo prodotto se ne ricavavano circa 50-60 chilogrammi. Tutto questo lavoro finì con l’arrivo del catrame e poi del bitume.

Si lavorava d’ascia e si produceva tutti i giorni un passo, tutti i giorni una fatica, ma piano piano, con lentezza, tavola dopo tavola, costola dopo costola, chiodo su chiodo, da poppa a prua, dal fondo alla scalmiera, finché un bel giorno, la barca sarebbe stata pronta a scendere sulle acque del fiume, ad arricchire oltre all’orgoglio del maestro, anche l’economia vitale dell’industria dei trasporti fluviali.

Ogni quattro anni circa, la barca veniva portata in cantiere per il controllo del fondo e l’eventuale sostituzione di parti del legname e per il calafataggio generale. La vita di una barca poteva essere anche di 70/80 anni e costituiva un patrimonio di notevole entità. Solo quando tutto il legname era ridotto in pessime condizioni si portava in cantiere per la demolizione.

Nei cantieri lavorava anche il fabbro, che sapeva modellare alla forgia i ferri da barca, da quelli da adattare ai diversi profili delle prue, ai chiodi veri e propri per lo scafo, alla ferramenta di coperta e, naturalmente, dei timoni. E il battere sordo del suo maglio sulle barche si sentiva come l’echeggiare di una voce.

Per le grandi barche: Burchi, Rascone, Gabarre e Bucintori, sartiame, manovra delle vele, ecc., erano nella maggior parte dei casi corrispondenti alle attrezzature marine, con l’eccezione delle bigotte, sostituite in acque interne da paranchi più corti per rendere più spedito l’arridaggio. Fondamentalmente seguono uno schema analogo con un’apertura al centro per il carico, fondo piatto, fianchi dritti, e due alberi con vele al terzo. L’esperienza secolare insegna che queste tipiche terminazioni di scafo a banano, o a cucchiaio, ritto, curvo o rialzato, rendono i natanti meno sensibili agli schiaffi delle correnti laterali, e più facili da manovrare anche carichi. A prora lateralmente, erano dipinti due occhi grandi di forma e di colore diverso, a poppa si scriveva il nome della nave. Nome, occhi e decorazioni, erano gli elementi dell’antica credenza, che faceva dell’imbarcazione un essere animato in lotta contro gli spiriti del male, che poteva incontrare durante la navigazione.

Foto tratte dal sito del Museo Civico della Navigazione Fluviale di Battaglia (PD).

Vi consigliamo la visita a questo museo molto particolare!

Vedi anche https://museonavigazione.eu/it/storia-della-navigazione-fluviale/